Wikileaks/1: Dov’ è la partecipazione?

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L’ operazione di selezione e di verifica dei documenti “non è affatto aperta agli internauti, né veramente partecipativa” , rileva Narvic su Novovision in una sorta di bilancio della vicenda dei 92.000 documenti segreti diffusi al mondo da Julian Assange – E più che di fonti collettive (‘crwodsourcing’) bisognerebbe parlare di informatori (‘wistleblowing’) – Quanto alla trasparenza è paradossale che Wikileaks la invochi dai governi mentre è essa stessa assolutamente impenetrabile agli sguardi esterni Questo neo-giornalismo digitale, partecipativo e libertario si rivela dunque molto opaco, chiuso e ambiguo, e non tanto “wiki” e nemmeno fondamentalmente innovatore quanto pretenderebbe di essere, osserva Narvic – Il principale apporto di Wikileaks al giornalismo sarebbe invece da ricercare sul versante delle tecnologie che esso mette in campo contro la censura e per la difesa della riservatezza delle fonti – Ma non parliamo di “rivoluzione nel giornalismo”: la storia suona come una sconfitta del modello della ‘saggezza delle folle’, visto che anche i suoi difensori passano la mano ai professionisti quando vogliono un lavoro il meno criticabile possibile!-  WikiLeaks si è ridotto ad essere nient’ altro che un banale strumento del giornalismo più classico, quello che continua a trattare le sue fonti con rigore e professionalità”- Semmai può essere una ibridazione di un nuovo germoglio sul vecchio tronco del giornalismo tradizionale – Come dice Julian Assange stesso, i diari afghani sono un caso di “partenariato”

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Il sito al centro della tempesta dei ‘diari afghani’ sin dal nome rivendica se stesso come un sito di giornalismo partecipativo, basato sui contributi degli internauti (che poi è il senso del concetto di ‘wiki’, come in Wikipedia), ma la realtà – osserva Narvic su Novovision – è un po’ diversa.

Si possono sottoporre dei documenti a Wikileaks, ma è l’ equipe del sito (anonima) l’ unica a decidere sull’ opportunità o meno della loro pubblicazione.

Non si sa che cosa ricevono e quindi non si sa quale parte delle cose ricevute pubblicano e quali no e sulla base di quali criteri; né con quali competenze e dopo quale lavoro di verifica lo fanno.

Questa operazione di selezione e verifica può darsi che sia collettiva,  ma viene fatta nei cortili interni della casa madre e noi non ne sappiamo niente: in ogni caso non è affatto aperta agli internauti, né veramente partecipativa.

Come rileva  Alexandre Hervaud su Ecrans, di realmente partecipativo nel funzionamento di Wikileaks  c’ è solo il modo in cui viene finanziato, attraverso i contributi degli internauti, anche se poi il meccanismo non funziona proprio bene (Augustin Scalbert,  su Rue89).

Un giornalismo “alimentato dalle masse”?

Anche qui si naviga in piena ambiguità. Wikileaks per alcuni sarebbe l’ esempio di un nuovo giornalismo di « crowdsourcing », alimentato direttamente attraverso le informazioni passate dagli internauti (la “folla”). Partecipativo “a monte”, quindi, anche se non è veramente “a valle”.

La situazione comunque è più complessa e sfumata.

Fra gli scoop di Wikileaks che hanno fatto rumore alcuni gli erano arrivati dopo che – in modo classico – erano stati proposti in precedenza a dei media tradizionali, che non li avevano pubblicati. Il Guardian non aveva potuto pubblicare, a causa di problemi giudiziari in UK, un Rapporto che coinvolgeva la società Trafigura in una vicenda di inquinamento mortale in Costa d’ Avorio. Wikileaks lo ha potuto fare, in seconda battuta, perch? La legislazione svedese glielo permetteva.

Dunque – prosegue Narvic -, meglio parlare di « whistleblowing » (denunce di irregolarità, informatori) piuttosto che di « crowdsourcing ».

Si pone però il problema delle motivazioni reali di queste informazioni: la pubblicazione da parte di Wikileaks di mail private di alcuni ricercatori britannici che avevano scatenato il Climate Gate, aveva lasciato un forte sospetto di manipolazione tesa a mandare a monte il summit di Copenhagen sul clima (tutti i ricercatori coinvolti erano stati poi completamente scagionati da qualsiasi accusa di frode da una inchiesta indipendente; Rue89).

Imporre la trasparenza ai governi?

La trasparenza è la missione che si è data Wikileaks : “cambiare il mondo abolendo il segreto di Stato”, riassume il Guardian. Ma come rileva argutamente, sul sito del Nieman Journalism Lab, il giornalista Jim Barnett, specialista del modello di finanziamento del giornalismo non profit: (in questa vicenda) “mi sembra che sia stato dimenticato un aspetto paradossale: una organizzazione senza fini di lucro che fa il voto di imporre la trasparenza ai governi, sembra pensare che questa regola non si applichi dentro casa”.

Ricordando che l’ inchiesta realizzata dalla rivista americana Wired sul finanziamento molto opcao di Wikileaks, Jim Barnett ritiene che “in alcuni casi una tale opacità può essere frutto di un errore. Ma nel caso di Wikileaks nasce da un disegno”.

E’ paradossale fare i cantori della trasparenza degli altri nascondendo se stessi dietro il segreto più stretto possibile: solo Julian Assange è riconosciuto ufficialmente come l’ animatore di Wikileaks. Per assicurare la protezione delle sue fonti, e assicurare la stabilità delle pubblicazioni online, Wikileaks si ripara ugualmente dietro una considerevole serie di misure tecniche.

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Questo neo-giornalismo digitale, partecipativo e libertario si rivela dunque molto opaco, chiuso e ambiguo, e non tanto “wiki” e nemmeno fondamentalmente innovatore quanto pretenderebbe di essere. Ma forse è altrove che bisogna cercare la sua vera originalità.

Impedire la censura

Il principale apporto di Wikileaks al giornalismo sarebbe forse da ricercare sul versante delle tecnologie che esso mette in campo (e di cui non si sa davvero un granché). Il sito assicura di aver utilizzato un dispositivo tecnologico molto sofisticato che permetterebbe di impedire l’ intervento della censura. I suoi documenti digitalizzati sarebbero suddivisi su diversi server, in paesi con legislazioni sulla stampa diverse fra loro. Circolerebbero in permanenza fra questi server attraverso dei “tunnel” informatici sicuri, diluiti in una massa considerevole di “falsi dati” destinati a nasconderli.

E’ una risorsa interessante, se si pensa che anche una democrazia come la Gran Bretagna aveva consentito che si impedisse al Guardian di pubblicare i documenti dell’ affare Trafigura. E’, tecnicamente e giuridicamente, molto più difficile raggiungere o fare pressioni su Wikileaks che su una azienda come il Guardian.

Proteggere le fonti

Si dice che il sito sia estremamente attento a proteggere da qualsiasi identificazione le fonti che gli forniscono documenti. Per questo metterebbe in campo delle tecnologie di criptaggio molto sofisticate, in grado di dare delle garanzie serissime ai suoi informatori.

E’ una strada molto interessante da approfondire per l’ insieme dei media, che non sembravano preoccuparsi molto in passato di questo problema.

Questa garanzia può essere quindi una potente motivazione per questi  “informatori” nell’ alimentare Wikileaks con informazioni di alto valore senza rischiare rappresaglie, soprattutto quando la garanzia giuridica di protezione delle fonti che i giornalisti professionisti possono invocare resta sostanzialmente fragile, anche nelle democrazie occidentali, e spesso inesistenti altrove.

Carmen Blanchetti lo rileva in Electron Libre :

« Jay Rosen, professore di giornalismo alla NYU, immagina Wikileaks come i primo organo di informazione affrancato dalla dipendenza da uno Stato (« first stateless news organisation »). Secondo lui, il cuore del progetto di  Wikileaks consiste nel “pubblicare delle informazioni indipendentemente dall’ interesse nazionale”.  Protezione delle fonti buongiorno! »

Anche se, in material di sicurezza, sis a bene che la tecnologia non è tutto e che esistono anche delle falle altrove, spesso “umane”, molto più difficile da tenere a bada (vedi il caso Manning). .

Il fallimento della « saggezza delle folle »

Questa tecnologia comunque non risolve affatto la questione della manipolazione di cui il sito può essere oggetto: come sembra sia stato il caso del Climate Gate… Wikileaks può “respingere categoricamente” (Le Figaro) i dubbi sulla affidablità dei documenti che gli vengono sottoposti, ma la garanzia che nascerebbe dalla “saggezza delle folle”, che il sito rivendica (“Nonostante quello che molti possono pensare, la saggezza collettiva di una comunità di utenti bene informati può permettere una diffusione, una verifica e una analisi con rapidità ed esattezza”, spiega il sito) non può essere sufficiente per delle analisi tanto serie e complesse come quelle relative a una guerra.

D’ altronde, ed è la cosa più sorprendente nell’ affare dei ‘diari afghani’, Wikileaks non è che si sia rimessa alla “saggezza delle folle” per verificare le sue informazioni, ma ai giornalisti investigativi di grande esperienza dei buoni vecchi media tradizionali come il New York Times, il Guardian e lo Spiegel ! E’ la “disfatta della ‘saggezza delle folle’”, sottolinea  il ricercatore Thibault Thomas su  Libération :

« Fornendo i documenti in suo possesso alle redazioni del New York Times, del Guardian e dello Spiegel, WikiLeaks ha riconosciuto l’ importanza del giornalismo tradizionale e, di fatto, la sua impotenza. Il sito web alla fine non è stato altro che il semplice legame tecnico che ha permesso a dei giornalisti esperti di accedere a delle fonti divulgate da un militare americano.

“Dov’ è la rivoluzione ? Assistiamo alla sconfitta del modello della ‘saggezza delle folle’: anche i suoi difensori passano la mano ai professionisti quando vogliono un lavoro il meno criticabile possibile! WikiLeaks si è ridotto ad essere nient’ altro che un banale strumento del giornalismo più classico, quello che continua a trattare le sue fonti con rigore e professionalità”.

E il ruolo di questi “vecchi professionisti” non sembra sia stato trascurabile, visto che, ad esempio, il New York Times ha ottenuto dal sito che i documenti pubblicati fossero completamente purgati da qualsiasi informazione suscettibile di mettere delle vite in pericolo.

La “nuova alleanza”

Quello che dimostra l’ associazione fruttuosa di questo nuovo e dei vecchi media nell’ operazione ‘diari afghani’, non è affatto che siamo di fronte a una “rivoluzione del giornalismo”, che dovrebbe sostituire un regime con un altro, come ci ripetono continuamente i guru della “rivoluzione di internet”. E’ invece una ibridazione di un nuovo germoglio – certo, mutante – sul vecchio tronco del giornalismo tradizionale.

Come dice Julian Assange stesso, i diari afghani sono un caso di “partenariato”.

Si tratta proprio di una “nuovo tipo di alleanza” (David Carr, New York Times), di una  “nuova coalizione dell’ informazione » (Benjamin Bottemer, sur Télérama).