Fotogiornalismo: da anni precarietà e deregulation affliggono la professione

fotografi2.jpg Oltre a essere messa in gioco la sopravvivenza della categoria, è minacciata pericolosamente anche la stessa credibilità di vasti settori dell’ informazione visiva proposta ai lettori – Il ruolo ambiguo delle agenzie – Organizzarsi sì, ma ricordiamoci che ci sono anche la Fnsi e le strutture territoriali – Un intervento di Amedeo Vergani a proposito di un articolo di poterefotografico.com (fotografia di Sergio Dolce )

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di Amedeo Vergani*

Fotografi, “vessati e umiliati”? La categoria dei fotogiornalisti è “in completa rotta, indifesa e spiazzata”? L’ articolo su poterefotografico.com di cui abbiamo dato notizia nei giorni scorsi (vedi Lsdi, “Fotografi vessati e umiliati”?) contiene delle sacrosante verità. Questa situazione pesantissima non è però una novità. Nel fotogiornalismo italiano le cose stanno andando così ormai dai primi anni ‘90 e all’ interno degli organismi istituzionali dei giornalisti le denunce di questa durissima realtà vanno avanti da anni e anni senza risultati concreti anche se tutti sanno benissimo che l’ attuale stato di fatto, con tutte le fragilità innescate da precarietà economica e deregolazione dei suoi “addetti”, oltre a mettere in gioco la sopravvivenza della categoria minaccia pure pericolosamente la stessa credibilità di vasti settori dell’ informazione visiva proposta ai lettori.

A questo proposito basta tener presente come, visto che da anni i giornali e le agenzie hanno chiuso le loro borse per quanto riguarda la produzione in proprio di fotoreportage d’ approfondimento o su temi di ampio respiro, sia ormai divenuta prassi da parte di moltissimi colleghi realizzare fotoreportage che richiedono investimenti economicamente impegnativi producendoli a spese ( viaggio, soggiorno più tutti gli altri annessi e connessi ) di “sponsor” interessati all’ argomento trattato ma per fini che, per certo, difficilmente vanno a coincidere con l’ interesse del lettore e che, di riffa o di raffa, orienteranno e condizioneranno i risultati del loro lavoro. Idem, sempre in tema di rischi di commistione tra la corretta informazione dovuta ai lettori e la propaganda o la pubblicità, anche sul fronte di determinate foto d’ attualità realizzate da fotoreporter che per riuscire a far quadrare i propri bilanci nonostante le tariffe irrisorie offerte dal mercato, lavorano in parallelo sia per gli organi di informazione giornalistica interessati all’ argomento che per gli organizzatori dell’evento stesso che devono “coprire” o per l’ ufficio stampa del personaggio di turno da raccontare.

D’ accordo anche sull’appello ad “organizzarsi” lanciato da “mozartiano”. In questo senso ricordo che all’ interno della Federazione nazionale della Stampa Italiana ( il sindacato unitario dei giornalisti ) esistono strutture – in alcuni casi anche regionali – che rappresentano i fotogiornalisti e che da anni cercano appunto di impegnare gli organismi istituzionali dei giornalisti ad affrontare in modo adeguato il ciclone che ha travolto la nostra specifica professione. Chi vuole può perciò unirsi a chi è già all’opera chiedendo informazioni all’ Assostampa della propria regione – vedere in www.fnsi.it – oppure rivolgendosi a me ( [email protected] ) .

Va comunque tenuto conto che la realtà da affrontare presenta difficoltà e complessità enormi. Basta pensare in primo luogo alla natura stessa della categoria attualmente composta da un variegatissimo ventaglio di soggetti che configurano giuridicamente il proprio lavoro in settori praticamente impossibili da rappresentare e da difendere attraverso un organismo unitario. Il “mestiere” di fotogiornalista in pratica accomuna infatti giornalisti liberi professionisti, esercenti attività generica da fotografo artigiano, chi effettua prestazioni occasionali, i titolari di micro agenzie fotografiche, chi si configura come “cedente di diritto d’autore”, chi invece opera come fotografo libero professionista senza però essere giornalista e chi più ne ha più ne metta. Questo aggiungendo poi che nella realtà del mercato la più grande fetta dei servizi e delle foto pubblicate arrivano nelle redazioni tramite le cosiddette agenzie fotografiche, vere e proprie aziende che, anche se hanno qualche problema o qualche interesse coincidente con quelli dei fotoreporter, nei fatti non si possono certo assimilare a soggetti tutelabili da un sindacato di lavoratori, ma anzi andrebbero considerate come nostre controparti sindacali, assieme agli editori.

Sempre per dare un’idea delle gravi difficoltà d’intervento, va ricordato anche che per quanto riguarda il problema centrale della quasi incredibile situazione dei compensi – fermi da più di quindici anni come ha ricordato giustamente “mozartiano” – il Sindacato dei giornalisti aveva puntato le sue carte sul proposito di riuscire ad imporre contrattualmente agli editori un tariffario minimo inderogabile sia per l’acquisto di foto da “non importa chi”, sia per le prestazioni professionali dei fotogiornalisti. Questa possibilità è però stata praticamente spazzata via dal “decreto Bersani” dell’estate 2006 con il quale, in nome del libero mercato, è stato vietato per legge qualsiasi genere di tariffario di categoria.

Il fronte delle tariffe è comunque stato sempre materia decisamente a rischio. Anche nella migliore delle ipotesi, qualsiasi accordo contrattuale tra il Sindacato e gli organismi che rappresentano gli editori ( Fieg e altro ) avrebbe infatti lasciato spazi giuridicamente fondati di possibile “dribblaggio” delle tariffe vincolanti da parte di fotoreporter o agenzie fotografiche contrari, appunto in nome del diritto alla libera concorrenza, a dover rinunciare alla opportunità di potersi porre sul mercato offrendo ai propri clienti condizioni economiche più vantaggiose rispetto a quelle di altri.

In merito a questa realtà della competitività “di mercato” giocata sull’offerta di tariffe al ribasso, non va infatti dimenticato che il “congelamento” – e in alcuni casi pure il crollo – dei compensi che imperversa da più di quindici anni è stato determinato soprattutto dalla spietata concorrenza che si è scatenata, dall’inizio degli anni ‘90, tra le cosiddette “agenzie fotografiche”: strutture di intermediazione che – fotogiornalisti volenti o nolenti – con la loro massiccia presenza nei volumi d’affari del settore hanno sempre rappresentato l’ago della bilancia nella determinazione dei prezzi correnti di foto, fotoreportage e prestazioni professionali dei fotoreporter. Realtà più che provata anche in tempi da “rose e fiori” per la categoria dei fotogiornalisti, quando, partendo dalla fine degli anni ‘70 sino a oltre la metà degli anni ‘80 , l’associazione di categoria ( Gadef ) che allora riuniva le fotoagenzie dominanti, grazie ad un momento di encomiabile compattezza, riusciva ogni anno ad imporre agli editori un tariffario indiscutibilmente dignitoso che veniva poi rispettato dalla maggioranza dei giornali anche nei rapporti con i fotoreporter indipendenti.

Volendo “organizzarsi” – come ha suggerito “mozartiano” – per poter individuare le possibili “terapie” per salvare e rilanciare il lavoro dei fotogiornalisti non si potrà perciò prescindere dall’ analizzare con priorità e a fondo anche la realtà e il ruolo determinante delle agenzie fotografiche e, soprattutto, la possibilità, o meno, di coinvolgere anche queste entità imprenditoriali nell’ applicazione delle eventuali regole necessarie a rimettere almeno un po’ d’ordine nel settore.

Chiudo ringraziando “mozartiano” per il suo impegno nel cercare di dare una mossa alla categoria e pure Pippo Sanfilippo per la sua segnalazione anche se, per quanto riguarda la tariffa pagata da Il Giorno, l’ha “allargata” un po’ troppo gettando, probabilmente, nel terrore e nello scompiglio gli amministratori della Poligrafici Editoriale. In realtà infatti il compenso standard imposto per contratto ai collaboratori dei tre quotidiani della ex Riffeser ( Giorno, Carlino e Nazione ) non è di 3 euro ma solo di 2,50.

Ossia 50 centesimi in meno che, nel caso che Il Giorno pagasse davvero la “fantasmagorica cifra di 3 euro”, rappresenterebbero un costo maggiore per l’azienda pari al 16,67 per cento, causando sicuramente un autentico disastro economico che, quasi certamente, porterebbe alla rovina l’intera casa editrice e lascerebbe sul lastrico centinaia di lavoratori.

Al di là dell’ironia, nell’ “organizzarsi” forse si potrebbe cominciare anche cercando di capire bene i perché e i percome c’è pure in giro gente che sottoscrive condizioni, come questa dei 2,50 euro a foto pubblicata, che a noi sembrano assolutamente inaccettabili. Disperazione della precarietà ? Inconsapevolezza da dilettanti allo sbaraglio? Pura idiozia? Oppure, molto più realisticamente, c’è qualcosa che ci sfugge sulle nuove frontiere del giornalismo fotografico?

Grazie anche a chi mi ha letto sino in fondo.

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*Presidente Gsgiv, dell’Associazione lombarda dei giornalisti, e fra i fondatori di Lsdi.