Cade il segreto sui “misteri d’ Italia”? Sì, mah, forse, no…

Piazza della Loggia Le speranze riposte nella Legge che regola il nuovo regime del segreto, approvata a larghissima maggioranza nell’ agosto scorso, stanno svanendo: una serie di grossi problemi – dalla doppia classificazione alla limitazione dei documenti soggetti alle nuove norme – rischia di limitarne drasticamente la portata – Un dibattito a Sesto San Giovanni con lo storico Aldo Giannuli, il procuratore generale aggiunto Armando Spataro, il segretario generale aggiunto FNSI Guido Besana, lo storico Giovanni Scirocco e il Soprintendente archivistico per la Lombardia Marina Messina

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di Maria Itri

Via il segreto di Stato sugli archivi: quando lo scorso agosto tutti i partiti avevano votato insieme la legge n°124 sul sistema di informazione per la sicurezza e la nuova disciplina del segreto, l’entusiasmo aveva fatto intravedere la possibilità di poter avere finalmente accesso a tutti gli atti vecchi almeno trent’anni e fin qui secretati. Oggi, a quasi un anno dall’approvazione dalla legge, per storici e giornalisti iniziano ad apparire le prime difficoltà concrete.

Di «Italia segreta» si è occupata a Sesto San Giovanni nei giorni scorsi la Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) nel corso di una tavola rotonda alla quale hanno partecipato tra gli altri lo storico Aldo Giannuli, il procuratore aggiunto della Procura di Milano Armando Spataro, il segretario generale aggiunto FNSI Guido Besana, lo storico Giovanni Scirocco e il Soprintendente archivistico per la Lombardia Marina Messina. (Su Radio radicale la registrazione degli interventi).  

Il primo grande problema sollevato dalla legge è quello della doppia classificazione. La legge infatti prevede la possibilità da parte del Presidente del Consiglio di apporre  il “Segreto di Stato” su un atto per 15 anni, e di reiterarlo una sola volta (arrivando così a 30 anni), ma non fa cadere la precedente classificazione dei documenti (in ordine crescente, riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo).«La classifica – spiega Aldo Giannuli – è un atto distinto con autonomo valore giuridico rispetto alla nozione di segreto di Stato. Questa distinzione ha l’effetto di raddoppiare i segni del segreto disgiungendone la durata temporale».  Il risultato finale è in sostanza la duplicazione del segreto.

Ma quali sono i documenti oggetto della nuova legge? Quali sono gli enti che saranno obbligati a versare all’Archivio centrale dello Stato i propri atti? La normativa dovrebbe riguardare solo Aise e Aisi, eredi di Sismi e Sisde. E gli atti della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza? Per ora sembrano essere esclusi.

Un altro problema sembra essere quello dei documenti precedenti all’entrata in vigore della legge (quelli cioè che dovrebbero, secondo l’entusiasmo generale, “rivelare i misteri d’Italia”). La normativa non prevede affatto che ci sia un automatismo che obbligherà a consegnare all’Archivio centrale dello Stato tutti i faldoni. Chi dovrà compiere queste operazioni? E ancora: come gestire i documenti che provengono da organismi sovranazionali (ad esempio la Nato) o da carteggi con servizi esteri? È evidente che questo genere di documento andrà trattato in altro modo. Così come una diversa soluzione dovrà essere adottata per quegli atti che contengono dati sensibili, in rispetto della legge per la privacy.
 
Sui tempi del segreto si apre un ulteriore capitolo: se è possibile far scattare il cronometro dei trent’anni sul singolo documento, bisogna però considerare come base il fascicolo che non può essere smembrato nella sua interezza, aspettando quindi per il versamento la scadenza dell’ultimo atto secretato. “Almeno teoricamente – afferma Giannuli – questo potrebbe portarci molto distanti dall’ epoca del fatto. Ad esempio, se la raccolta informativa sul caso Borghese si è protratta sino alla fine del giudizio penale sul caso, nel 1985, ne deriva che il relativo fascicolo dovrebbe essere versato nel 2015, a 45 anni dal fatto”.

C’è poca chiarezza anche su quando effettivamente inizi la scadenza dei trent’anni: da quando il documento – che può non essere stato in precedenza classificato come riservato – ha origine o da quando il presidente del Consiglio decide di apporre il segreto?

Altri problemi, secondo Armando Spataro, potrebbero arrivare dalle interpretazioni della norma che riguarderebbe la possibilità da parte dell’imputato di opporre – come accade per il testimone –  l’obbligo del Segreto di Stato. Spataro ha ricordato le sentenze della Corte d’appello di Roma e  della Corte di Cassazione nei confronti del generale del Sismi Pietro Musumeci che aveva invocato da imputato il Segreto di Stato. Le sentenze avevano chiarito molto bene come secondo il codice penale il diritto di difesa vincesse sul reato di rivelazione del Segreto di Stato.

Nella prima stesura dell’articolo 202 si era tornati invece a prevedere l’opposizione anche per l’imputato: eliminato in seguito alle polemiche, misteriosamente questo elemento ritorna ora in un altro articolo, il 41,  del regolamento che introduce, secondo Spataro, «una norma che per alcuni aspetti è banale. Al primo comma  dice che ai pubblici ufficiali è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti dal Segreto di stato. Aggiunge che nel processo penale  – ad esclusione del caso dei testimoni –  se è stato opposto il Segreto di stato l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei ministri» aprendo una procedura del tutto simile a quella dei testimoni. «L’ambiguità- afferma Spadaro – emerge dalle dichiarazioni di parlamentari che hanno sostenuto apertamente che questo consentirà all’ imputato di opporre il Segreto. Per quanto mi riguarda – conclude – non credo che questa norma non imponga all’imputato l’ obbligo di apporre il Segreto di stato, ma sono convinto che causerà molti problemi».

Infine un ultimo aspetto è quello che riguarda la assoluta impreparazione a gestire il processo di accessibilità degli atti. I documenti non sono stati organizzati con una logica archivistica,  «sono nella migliore delle ipotesi – spiega Marina Messina – raccolte di documenti, nella maggior parte dei casi ammassi di carte, perché non c’è mai stato un lavoro serio scientifico tecnico che fa l’archivista quando prende in mano le carte e le organizza».

La trasparenza e l’apertura che avrebbero portato a un “nuovo corso” della storiografia e delle inchieste giornalistiche si riveleranno sempre di più una illusione?