SE I MEDIA DIVENTANO
”LUOGHI DEL NOSTRO ABITARE”


Giovanni Boccia Artieri

I media possono essere pensati sempre più come luoghi, come ambienti, come territori del nostro abitare – Così Giovanni Boccia Artieri, in questa intervista a Lsdi, spiega che cosa sono i ‘’media-mondo’’, al centro delle sue ricerche all’ Università di Urbino – Il ‘’corpo post-umano’’ – Citizen journalism e reporting diffuso – La persistenza del giornalismo professionale e l’ affermarsi di nuove ‘’reputazioni’’ – I modelli della ‘’brand tribe’’, le tribù che nascono intorno ai ‘’marchi’’

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Nella dispersione dei territori mediali, la dimensione della selezione diventa essenziale. Per questo le professionalità continueranno a rappresentare una capacità di orientamento riconosciuto per costruire percorsi di “pertinenza” comunicativa, accanto però alle forme di “reputazione” che emergono spontaneamente, ad esempio, nella dimensione informativa sul web.

E’ una delle previsioni che Giovanni Boccia Artieri*, professore associato in Sociologia dei new media della Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino, dove insegna anche Teoria dell’Informazione, articola in questa intervista a Lsdi.

In pratica – prosegue Boccia Artieri – ‘’la professionalità sarà scavalcata e/o integrata da legami fiduciari e di reputazione, evidenziati, ad esempio oggi dall’essere linkati in modo frequente da quei siti/blog che hanno elevata reputazione. Si tratta dunque di un modello misto fra personalizzazione dell’approccio all’informazione e forme di garanzia mediate professionalmente’’.

Ma la persistenza di determinate professionalità, come quella giornalistica, avverrà all’ interno di una cornice radicalmente trasformata, in cui – in particolare – i media non avranno più una funzione di mediazione, ma diventeranno essi stessi dei ‘’luoghi dell’ esistenza’’.

L’ intervista con Boccia Artieri prende spunto proprio dal concetto di ‘’mediamondo’’, a cui il sociologo ha dedicato un saggio e a cui ha intitolato un suo blog .

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– Professore, lei ritiene che i media non siano più strumenti di mediazione ma si siano trasformati in ‘’mondi autonomi’’. Lei li definisce ‘’media-mondo’’. E’ così?

I media possono essere pensati sempre più come luoghi, come ambienti, come territori del nostro abitare. Rappresentano spazi dell’esperienza che integrano le forme di esperienza quotidiana. Sono vere e proprie interfacce esperienziali che, in particolare a fronte dell’evoluzione dei nuovi media, tendono a creare realtà autonome nelle quali ci immergiamo.
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Penso al fenomeno crescente dei MMORPG – giochi di ruolo online di massa, come SecondLife o Word of Warcraft. Al tempo dedicato allo scrivere il proprio blog e monitorare attraverso i Feed RSS le informazioni degli altri… Ma penso anche alle forme crescenti di coinvolgimento mediale dei pubblici tradizionali, come quello televisivo e radiofonico, che attraverso narrazioni coinvolgenti, approfondimenti online, forme di partecipazione alla costruzione del programma, podcasting ecc. sono portati a confrontare la propria vita con quelle mediali. Cosa sarebbe Caterpillar senza il pubblico di Radio 2?

– A partire da quando è cominciato questo processo?

Si tratta in realtà di un processo profondo che ha sempre accompagnato l’evoluzione sincrona di media e società. Il modello di riferimento è il meccanismo news-novel che si consolida tra il XVI e il XVII secolo. Ben prima di TV e nuovi media, dunque.

È qui che con l’evoluzione del romanzo moderno e con la nascita e diffusione dei quotidiani diventa evidente una realtà doppia: fiction da una parte e “realtà reale” dall’altra. Il pubblico si abitua a oscillare tra queste due realtà confrontando i contenuti mediali con la propria vita, il proprio punto di vista, ecc. I media contemporanei rendono maggiormente visibile la possibilità di abitare l’altro lato dei media, ad esempio con gli Avatar, con le identità fittizie e multiple online ecc.

– E in che punto è maturato questo ‘’salto’’ qualitativo?

La vera maturazione l’abbiamo con la crescita di possibilità di “oscillazione”. La vita quotidiana si intreccia con le vite sullo schermo: computer, PDA, cellulari, ecc. rappresentano occasioni per partecipare e costruire questo luogo, che in fondo è, poi, la comunicazione.

– Che rapporto c’è fra la tecnica e il linguaggio? E, ancora, che significa post-umano?

La tecnica non è, ovviamente, né buona, né cattiva né neutrale. Le tecnologie modificano la nostra ontologia, la nostra filosofia, il nostro modo di vedere il mondo. Costruiscono “cornici” che si relazionano alla nostra realtà percettiva e cognitiva. Esistono quindi mutazioni in atto che connettono forme mediali a nuove occasione di rappresentare e di interagire a livello corporeo. Basti pensare alle tecnologie “futuribili” della VR ( virtual reality , ndr) che consentono rapporti immersivi virtualizzati con altre corporeità. O, più semplicemente, alle tante possibilità che i media ci offrono di pensare “altrimenti” il nostro corpo.
Ecco, il corpo postumano, in prima approssimazione, è il corpo delle molteplici possibilità. Fino ai limiti della transumanità che includeranno gli impianti corporali, l’androginia, la riproduzione asessuale e l’identità dispersa. Il mondo dell’arte, delle performance e dei video, così come quello della narrativa e della fiction cinematografica, ci ha raccontato spesso questi territori di una umanità a venire, costruendo l’immaginario del post-umano.

-Chiediamo ancora: i media si autonomizzano anche dagli specialisti (e, quindi, ex specialisti?) del settore? Aumenta la distanza fra media e giornalismo?

Nel campo dell’informazione diventa essenziale, nella dispersione dei territori mediali, la dimensione della selezione. Per questo le professionalità rappresenteranno una capacità di orientamento riconosciuto per costruire percorsi di “pertinenza” comunicativa, accanto però alle forme di “reputazione” che emergono spontaneamente, ad esempio, nella dimensione informativa sul web. In pratica la professionalità sarà scavalcata e/o integrata da legami fiduciari e di reputazione, evidenziati, ad esempio oggi dall’essere linkati in modo frequente da quei siti/blog che hanno elevata reputazione. Si tratta dunque di un modello misto fra personalizzazione dell’approccio all’informazione e forme di garanzia mediate professionalmente.

Un altro ambito nel quale i professionisti dell’informazione mostreranno probabilmente la loro funzione è nella loro centralità nelle comunità di pratiche connesse alla realtà informativa grazie alla capacità di confezionare “storie” ed evidenziare i temi rilevanti attraverso una molteplicità di fonti che, accanto a quelle tradizionali, annoverano quelle legate ai nuovi media e al web 2.0.

– Ma insomma, il giornalismo si arroccherà come linguaggio/prassi/tecnica da nicchia – oppure diventerà ‘’giornalismo diffuso’’, pratica popolare, di massa?

Un modello al momento emergente sembra essere quello del Citizen journalism e del reporting diffuso, che da una parte vede il coinvolgimento di quello che è il pubblico dei media nella costruzione dell’informazione e dall’altro sviluppa modelli inediti del “fare” giornalismo che comporteranno il superamento di linguaggi tradizionali dell’ informazione a favore di modelli partecipativi, collettivi e ad elevata personalizzazione.

Questo produce una molteplicità di poli e forme di informazione che, accanto a siti non mainstream che organizzano i materiali del reporting diffuso (si veda indymedia.org), al proliferare di blog tenuti da professionisti dell’informazione, a forme ibride di utilizzo professionale di contenuti generati dai “lettori”, ecc. trova forme nelle quali le strutture professionali del giornalismo rielaborano e confezionano contenuti dell’utente come unica fonte informativa, come nel famoso caso di OhMyNews, fondato dal giornalista coreano Oh Yeon Ho a partire dallo slogan “Ogni cittadino è un reporter”.

– E questo, secondo lei, che ripercussioni avrà sull’ industria, sui business model?

È evidente che di fronte a forme di comunicazione many-to-many, supportate da una logica partecipativa di social media, i modelli economici tradizionali diventano inadeguati. Possiamo ipotizzare una realtà, ad esempio nella Rete, fatta di una miriade di piccoli finanziatori interessati all’approccio antigeneralista di questa informazione, che consente di targettizzare meglio il pubblico (e quindi il proprio consumatore), di utilizzare strategie di contestual advertisement contando anche sulla creazione, attorno a questi poli informativi, di comunità partecipative che permettono ai marchi di sperimentare le strade del brand tribe**, nel quale coinvolgimento e partecipazione diventano centrali.

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* Vedi scheda

** Uno dei concetti chiave del cosiddetto ‘’marketing postmoderno’’:
A group of people who share their interest in a specific brand and create a parallel social universe … ” ( Brand Hijack: Marketing Without Marketing, di Alex Wipperfurth, ).